Blog

Scrivo per un amico

[Ph. Lucia P.]

Credo di essere stata colpita da quell’antipatica costipazione dialettica, più comunemente riconosciuta come blocco dello scrittore. “Che cosa strana”, mi sono detta guardando la parete su cui attacco i post-it delle mie ispirazioni e dei progetti che intendo sviluppare su carta. O dovrei dire su un blank. “Non mi pare di essere proprio a corto di idee”. E pensare che ho sempre creduto che per poter scrivere fosse necessario soltanto avere quelle. Le idee. E invece no, oggi vi direi che non bastano. Serve anche una certa serenità d’animo, o una certa irrequietezza probabilmente. Che le irrequietezze non sono mica tutte uguali. Ci sono quelle che non ti fanno dormire la notte, e il giorno dopo sei sempre più stanca e pessimista. E quelle che ti fanno sognare cose strane e il giorno dopo ti svegli con la voglia di andarle a cercare con la luce del sole per chiedergli cosa vogliono da te.

Voli pindarici a parte, sono abbastanza irrequieta, ma la mattina non mi viene di andare a cercare proprio niente. Mi faccio la mia santa giornata con le antenne alzate, pronte a cogliere ispirazioni di ogni genere e quando va bene mi mando le mail da lavoro sull’indirizzo personale per non perdere certe visioni che mi balenano così all’improvviso. Puntualmente proprio quando non potrei irrompere nell’ufficio dicendo “Saluti e baci: ho voglia di scrivere e devo farlo ora”. La sera quando rientro a casa, mi siedo bella carica con in testa tutta la motivazione per sfondare la tastiera e invece, fatto un gran respiro, resto ferma sulla seconda riga dei miei concetti. E si sa: le prime due righe sono un pò la bella rincorsa prima del salto in alto. Se parti male, la gara è compromessa. Ma tornando al mio loop infernale, scrivo e ricancello quelle due righe decine e decine di volte, che se fossi stata figlia di quell’antica generazione che scriveva su carta e macchina da scrivere, sarei andata in fallimento prima ancora di provare a entrarci in questo mondo di parolieri. E su queste benedette prime due righe mi arrendo, solitamente intorno a mezzanotte e mezza. Orario oltre il quale mi sembra più responsabile andare a dormire, garantirmi il ciclo del sonno sufficiente a salvaguardare la lucidità per le ispirazioni di domani. Se mai vorranno concedermi la grazia di spingere questo tappo e uscire dalla pancia, prima o poi. Come hanno sempre fatto senza particolare sforzo.

Sto cosi da mesi. Sebbene per qualche tempo ho pensato fosse l’umore a tenermi le mani legate, e che dovessi semplicemente accettare il momento e farlo passare, ad un certo punto di quest’autunno piovosissimo, mi sono detta che dovevo smettere di aspettare. Che l’attesa mi stava allontanando dalla riva del mio posto preferito.

Ho quindi affrontato il problema facendo quello che faccio da sempre quando sono in situazioni di emergenza. Questa cosa ovviamente non è chiedere aiuto. Mi psicanalizzo piuttosto fino allo sfinimento, per trovare il “perchè” logico per cui certe cose vanno cosi e non come vorrei io. Poco importa quanto tempo ci metterò a tirare giù qualche valida opinione. Dovesse anche servire rimanere chiusa in casa settimane intere.

Caso ha voluto che abbia incontrato molte persone in queste ultime settimane, e chiaramente stordita dai fumi dell’alcol, tra un bicchiere di vino, il secondo giro di cocktail e una bionda media, abbia tentato di indagare le ragioni di questa fastidiosa costipazione dialettica attraverso gli altri. Ho pensato che potessi rubare da loro le risposte alle domande a cui io non trovo una via d’uscita, senza però scoprirmi troppo sul mio stato d’animo. Proprio come quelle poste del cuore nelle quali a chiedere consigli su come uscire da situazioni di merda non è mai il diretto interessato, quanto piuttosto “Chiedo per un amico."

Alba (nome vero), grande lettrice, appassionata di arte, cultura e spirito libero almeno quanto me, ha acceso le quattro frecce sotto casa e mi ha ascoltata per quaranta minuti senza interrompermi. Alla fine, non so se per istinto di sopravvivenza o per salvare me dall’annegamento certo in tutti quei pensieri confusi, mi ha detto: “Luci, decidi un momento, che sia il sabato mattina o la domenica pomeriggio poco importa. Ma ogni settimana in quel giorno e a quell’ora, prendi la bici e vai in un posto da sola a scrivere. Quello dev’essere il tuo momento, dove non può esserci nessun altro se non tu e le cose che hai da dire”. Sono scesa dall’auto e, con l’ascensore fermo tra il secondo e il terzo piano, ne ho fatti sei a piedi, a trentatré anni ( “Signora dica trentatré” “Trentadue” “No signora, per auscultare ho bisogno che dica trentatré. Dica trentatré!” “Trentatr…etciù”) con un fiatone della madonna, pensando: ca**o Lucia, perché non ci hai pensato prima. Il “metodo”. Pensavi di non avere più nulla da dire, e invece ci vuole solo metodo. Come quando ti sei laureata a pieni voti o hai corso 12 km in un’ora.

Qualche giorno dopo ho beccato nel pub sotto casa Carlo (nome di fantasia), che fa lo scrittore di mestiere. Lui però, addetto ai lavori ben più di me, non sa cosa sia questa costipazione dialettica. Quando gli ho domandato come facesse a scrivere un romanzo intero in poco più di un paio di stagioni, se si obbligasse alla scrivania tutte le sere per tre ore ad esempio, o se ci fosse una routine dietro la sua immensa produttività artistica, lui mi ha risposto dicendomi: “Per me scrivere è come l’amore. Cioè non penso ad altro se non a quello, e non vedo l’ora di finire di lavorare per correre da lei. È tipo un’ossessione.”.  Immaginate me e come abbia potuto reagire ad una metafora così, proprio sull’amore. Sono tornata a casa peggio di come ero uscita, interrogandomi se fossi davvero innamorata di questa cosa, o se come accade in certi rapporti di coppia in fin di vita, utilizzassi la scrittura solo per definirmi in qualche modo quando devo parlare di me. Giusto perché è un rapporto comodo, dove però ossessione non ce n’è più. Una comfort zone, per l’appunto. Quest’idea mi ha fatta riprecipitare giù, lungo tutti e sei i piani di speranza positiva percorsi qualche giorno prima dopo aver visto Alba. Ho bruscamente interrotto questo esperimento umano che, una volta tanto, coinvolgeva gli altri per trovare la soluzione ad un mio problema. Non ho visto nessuno per un pò, e sforzato la mia immaginazione oltre le due righe di testo soltanto per declinare inviti ad uscire. 

Finché una giorno Domenico (nome vero), una nuova conoscenza incontrata di sabato sera ad una cena che coinvolgeva i classici “amici di amici”, mi ha scritto per dirmi di aver letto qualcosa sul mio blog. Mi ha raccontato con un timido entusiasmo della sua passione per la poesia, oltre a tutte le ragioni per le quali la tratta come un’amante segreta. Un pudore che ho avuto in verità anche io all’inizio, fino a quando non ho capito che tanto le emozioni raccontate sarebbero rimaste comunque mie, vergognarsene non aveva senso, mentre condividerle avrebbe semmai alleviato la solitudine altrui se questi fossero riusciti a riconoscersi nelle mie storie. Così per spiegare a lui che strada avevo percorso per distruggere il pudore egoista del raccontarsi, ho fatto quello che in effetti faccio da anni quando scrivo: ho riordinato le idee e quei concetti li ho detti a me, prima di dirli a lui. Ha giocato un ruolo importantissimo essere dietro un telefono e non davanti ad una birra, e vederci un pò di me in quelle paure. Costruire quei concetti concentrandomi solo sulle parole da scegliere. Nei giorni a seguire ho riflettuto a lungo all’ennesima altalena emotiva sulla quale avevo viaggiato nelle trascorse settimane di ricerca. Sopratutto sull’importanza di collocarsi sempre al centro di un percorso in movimento, dove le cose che ho già vissuto non erano affatto scontate prima che le vivessi, e tutte quelle che vorrei e che non sono ancora arrivate, non è scritto in nessun posto che non ci saranno mai. O che al contrario, ci saranno sicuramente.

Ho riaperto un blank, a fine giornata, con la fiducia che questi ragionamenti facessero saltare il tappo e mi spingessero oltre la benedetta seconda riga, ma niente. Ne ho scritte quattro e cancellate due. Ma con una serenità tutta diversa. Anzi: un’irrequietezza piuttosto.

Alla fine ho visto Giacomo (nome vero di fantasia). Nel bel mezzo di un valzer di gin tonic, probabilmente più ubriaco di parole che di alcol, mi ha detto: “Scrivi altro”. 

“Cioè?”

“Cioè se non riesci a continuare le robe che hai in ballo, apri un foglio bianco e scrivi di altro. Secondo me scrivendo ti verranno in mente cose da utilizzare nel racconto che non riesci a continuare.” 

Sembrava così difficile e invece serviva solo interrogare quella parte di me che scrive senza assolutamente un motivo preciso. Un pò come mi aveva suggerito inconsciamente Carlo, quando mi aveva parlato d’amore per dirmi cosa provava. Quasi fosse un impulso istintivo, un battito a cui non puoi imporre il ritmo, ne ragionarglielo. Figuriamoci dargli un metodo. O peggio, chiedersi perché. 

Ed eccomi qui. Ben oltre la seconda riga, e poco oltre i miei dubbi sul chiedere aiuto quando ho un problema. Mi piace pensare a quando fra dieci, venti o trent’anni rileggerò questo testo e ripenserò a quanta strada avrei dovuto ancora percorrere prima di capire qual’è il giusto sforzo per avere ciò che si vuole. Qual’è il giusto tempo. 

Tanto se una cosa deve succedere, succede. Tutta ‘sta fretta di fa succede le cose ce l’ha messa il capitalismo.

E allora direi che posso smetterla di preoccuparmi se le cose che voglio non arrivano quando me lo aspetto. Tanto se è vero quello che mi ha sempre detto nonno, le cose che amiamo non ci abbandonano mai davvero, e quelle che desideriamo nel profondo, prima o poi, si realizzano attraverso una somma di comportamenti nemmeno tanto consapevoli.

È vero o no?

Non dico per me. Chiedo per un amico.