"Questo messaggio è stato eliminato"
Trovo molto affascinante l’evoluzione che ha avuto la comunicazione, direi negli ultimi cento anni. Me lo diceva spesso mio nonno: “Quann n’erama scriv, pnzemm a San Juann e l’scemm a Sanda L’cì”. Che per i non addetti ai lavori significa: quando volevamo scriverci, pensavamo a che parole scegliere a San Giovanni (festeggiato il 24 giugno) e riuscivamo a leggerle a Santa Lucia (il 13 dicembre). Per questo i detti popolari conservano la semplicità e allo stesso tempo la magia dei significati non spiegati, quelli che “non serve aggiungere altro”. Così mio nonno era riuscito a spiegarmi l’impegno che ci si metteva nello scegliere, da quel vocabolario nemmeno tanto ricco, le parole che sarebbero arrivate ai cari. Quasi a piedi direi, considerando le tre stagioni di mezzo tra San Giovanni e Santa Lucia. Lui li avrebbe contati in colture e raccolte, ma il tempo è un’unità di misura che ci unisce tutti, per cui decisamente meglio così.
Dubito che ci si facesse delle domande in quelle lettere: un lunatico avrebbe dovuto affrontare la vulnerabilità delle sue risposte dal giorno della partenza a quella di arrivo nelle mani del destinatario. Tuttavia le parole scelte, lo erano davvero. Vuoi per la difficoltà di metterle insieme con appena la seconda o la terza elementare. Vuoi perché quel one shot lungo mesi e mesi caricava di responsabilità.
A dieci anni sono partita per due settimane in colonia estiva a Venezia. Sola e lontana da casa, ho trascorso i primi due giorni a disperarmi, ma poi ho conosciuto Oriana: una bambina allegra e vivace, come me, con la quale ho iniziato una bellissima amicizia epistolare che si è allungata fino ai quattordici/quindici anni. Non era proprio come le lettere di cui mi parlava il nonno (riuscivamo con un francobollo a garantirci di riceverle entro il mese), però aveva ragione sul tempo speso a pensare a come raccontarsi o dire cose semplici. Con l’aggravante di essere già delle bambine a scuola media negli anni 90, i primi sms con massimo ottanta caratteri, e un vocabolario ben più grande di parole da dire. E ce ne siamo dette di parole, senza nulla invidiare a quelle raccontate sottovoce e luce soffusa, nei pomeriggi di finto studio a casa di non so chi. Le conservavo in una scatola fucsia, presa a mia madre dopo l’acquisto di un paio di scarpe. Mi piaceva tenerle impilate, in ordine cronologico e vantarmene ogni qual volta mi chiedevano “Come sta Oriana?”. Slacciavo il nastro di raso, aprivo la scatola e le accarezzavo sul profilo ordinato come le corde di un’arpa.
Abbiamo smesso di scriverci alcuni anni dopo l’avvento delle mail, con la consapevolezza che ogni nuovo mezzo di comunicazione valido ad accorciare i nostri tempi di reazione, non sarebbe mai valso la magia di quei mucchi di carta. Magia di cosa? Non avrei saputo spiegarlo a quindici anni, ma qualche idea a trenta, mentre alimento questo blog personale, si fa chiara.
Se negli anni cinquanta per avere un buon curriculum bastava possedere un titolo di laurea, oggi maturi seniority e credibilità professionale quanto più alto è il numero di persone con cui entri in contatto. Quelle con cui riesci a comunicare e che puoi influenzare. Nelle piccole o medie realtà imprenditoriali in cui sono cresciuti i miei genitori, esisteva il “Dottor Angelo” “Don Antonio”. Gli istruiti dell’impresa, che gestivano le risorse e ai quali non serviva che il dipendente capisse, ma che facesse e basta.
Per cui i figli della Dirigenza erano quasi obbligati a seguire le orme dei genitori, a interessarsi a quel business e ad accollarsi il peso intero della conoscenza imprenditoriale dell’azienda di famiglia (una sorta di AD, che fa anche l’HR Director, il Plant Manager, il Controller e l’Accounting Specialist). Lo credo bene che più di uno si sia rotto il cazzo ad un certo punto e abbia iniziato a percorrere strade nuove.
Lato umano a parte, questa rivolta generazionale, assieme all’aumento del livello medio d’istruzione e il cambio del tessuto imprenditoriale italiano, ha spostato completamente l’asse di valutazione di un professionista nell’era moderna. Ce lo insegna ogni giorno il lavoro in multinazionale: i dieci dipendenti con la licenza media sono solo un lontano ricordo. Oggi se passi la maturità con sessanta, non sei buono nemmeno ad imbucare le lettere per Poste Italiane. Ma se sei laureato e hai “spiccate doti relazionali” (che in prosa significa possedere la virtù di tessere rapporti con chiunque, che ti stiano sulle palle o no, chiunque), puoi accaparrarti un buon stipendio, una carriera interessante e mangiare in testa a Don Antonio e al Dottor Angelo. Non occorre conoscere le cose, ma saperle dire a quanta più gente possibile. Se penso oggi al tempo speso a lavoro, mi vengono in mente pochissime azioni del “saper fare”, costrette in scampoli silenziosi del fine giornata, sempre in scadenza già “ieri”, divulgate per settimane a centinaia di persone, in dieci canali diversi, a tre diversi livelli di gerarchia.
Un esercizio costante di velocità, reattività e furbizia. Così rapido da divorare tutta la goduria del dover selezionare le parole per dire un concetto così come ti frulla in testa. Quello che provo io quando mi siedo in poltrona e prendo a picchiare giù sui tasti guardando un punto fisso fuori dalla finestra. Non voglio dire che non serve conoscere le cose, ma che oggi la conoscenza è cosi tanto aperta e fruibile a tutti, che prima di ricordare cosa abbiamo imparato di nuovo oggi, ci ricordiamo chi ce lo ha raccontato bene.
Dopotutto non credo sia un’evoluzione sbagliata essere passati dallo scegliere le parole pensando all’attesa per farle recapitare, allo sceglierle nel tempo di un battito di ciglia perché tutta la loro efficacia è proprio li. Mi preoccupa piuttosto la necessità di volere sempre tutto, quelle vie di mezzo anomale che per avere una soluzione anche all’impossibile rompono gli equilibri. Forse certe cose è bene che la soluzione non ce l’abbiano.
Ho ricevuto oggi più di una dozzina di messaggi, alcuni dei quali da persone con cui parlo quotidianamente. Almeno cinque di questi, durante la nostra conversazione ha approfittato del mio limitatissimo tempo di reazione mentre sono a lavoro per… “Questo messaggio è stato eliminato”. Non è dato sapere cosa ha scatenato questa vergogna insostenibile o rimorso che li ha spinti a pulire ogni traccia del loro pensiero, ma in verità la cosa mi capita spessissimo. Ho lanciato un sondaggio qualche giorno fa sul mio profilo Instagram in proposito, chiedendo quali fossero le ragioni per cui un messaggio potesse essere cancellato. Quali verità inconfessabili da non aver la dignità di rimanere agli atti su una chat privata. Ho ricevuto un po’ di “errori di grammatica” e qualche sincero “la paura di ferire”. Ho pensato di pancia che il mondo in questo senso potesse dividersi in “io” e “tu”. Cancello il messaggio prima che tu lo legga perché “io” possa uscirne pulito, o lo faccio perché “tu” possa uscirne illeso.
Questo loop mentale sul perché la gente cancella i propri pensieri dopo averli scritti, mi ha portato a ragionare su due cose. Innanzitutto l’insensatezza di come questa gente scelga le parole: se come me hai amato i tempi delle parole scelte, per le persone o anche solo per il tempo trascorso a farlo, non capisco perché tu debba cancellarle. Sia che appartenga al mondo dell’”io” che del “tu”, diventare grandi comporta dire quello che si pensa, superando l’eventuale rischio di non essere capiti da tutti, e la possibilità talvolta di non riscuotere consensi, e quindi ferire. Banale ma vero.
La seconda riporta ai miei vent’anni e al mio primo grande amore, con il quale avevo trascorso tutto il pomeriggio a rotolarmi sul letto e a lottare a botte di baci ardenti e bollori, tra il “te la do” e “no, non te la do”. In tarda sera avevo messaggiato con la mia migliore amica, raccontandole dell’accaduto e in confidenza femminile, di tutte le cose a cui avevo pensato in quei momenti di indecisione passionale, mentre dall’altra parte c’era probabilmente solo nebbia e mare piatto. Parole veloci, quelle che ci lanciamo in chat con gli amici o con gli amanti, mentre stiamo probabilmente facendo altre mille attività. Per me sono sempre state comunque parole scelte. Ebbene ho messo in piazza ogni dubbio rispetto al nostro rapporto, alla sicurezza di voler star con lui e la paura di non essere amata abbastanza. Ho schiacciato invio, e in un battito di ciglia mi sono accorta di aver sbagliato chat e di averlo inviato proprio a lui.
Me lo ricordo molto bene quel pomeriggio di ansia che manco Hitchcock avrebbe potuto fare meglio. E ricordo vagamente anche la mia disperata voglia di avercela una soluzione a quel danno di comunicazione. Ma ahimè: nemmeno Salvatore Aranzulla seppe aiutarmi. Dovetti scontrarmi con l’ira funesta di lui, che mai si sarebbe aspettato quelle crepe nel nostro rapporto, oltre alla delusione amara di esserne venuto a conoscenza così. Per errore.
Ne uscì fuori una delle cose più belle che esista tra la gente che si ama davvero: un litigio infuocato, due chili buoni di confessioni. E la pace, fare la pace: la parte migliore.
E come Leopardi, che si fa film a nastro sull’ultima parte dell’orizzonte che la siepe gli esclude, io ho giocato con tutti quei messaggi censurati. Si, ci ho giocato: ho pensato a quanta importanza do ad una frase scritta male, ma che dice qualcosa, se è vero che oggi le cose ce le diciamo senza darci il tempo di riflettere, giocherellando solo con la nostra prontezza di spirito. La velocità di rimbalzare la palla e rispedirla oltre la rete, proprio come una partita a ping pong. La bellezza di riceverla indietro, come quando hai un bel feeling con un ragazzo. Il ritmo dei colpi e il primo silenzio dei due che corrisponde al “Palla a terra. Punto per te”. Ho immaginato tante frasi scritte male, i congiuntivi morti, l’anima di Treccani. Ho immaginato tutte le parole scelte che dopo l’invio hanno trovato una soluzione all’errore, un mantello dell’invisibilità su quello che vorremmo dire. Ho pensato a quante cose belle probabilmente ci stiamo perdendo per il solo pudore di raccontare chi siamo.