Story Flash: il Due
Come ogni nodo giunto al pettine, anche quella storia doveva prendere una direzione. A destra o a sinistra di quella setola bastarda che tira, tira giù e ti obbliga a scegliere una strada. Ad un certo punto tutti i rapporti finiscono cosi. Destra o sinistra: purché una direzione ci sia. E finché non la si sceglie, non la si capisce davvero, dolori amari signori miei e un nodo irrisolto.
Tutti i nodi vengono al pettine. “I proverbi non si sbagliano mai” dice sempre mia madre.
Sul tram del venerdì sera, alle 22:23, appallottolata sull’ultimo sedile in fondo a destra con le cuffiette infilate nelle orecchie e gli occhi fissi fuori dal finestrino. Un gran baccano mi ha distolto da quel rilassante intontimento. Ho guardato in fondo al vagone e ci ho visto un cane abbaiare con tutto il fiato possibile per quei due diabolici polmoni, alla caviglia di un ragazzo. Un giovane uomo in jeans nero slavato, le gambe lunghe distese con aria disinteressata e scomoda lungo il corridoio della carrozza. Le scarpe bianche, linde, come la t-shirt a manica corta, ma non come il berretto bordeaux, con la visiera tirata giù sulla nuca e un po’ di ricci in fuga qua e la. Le braccia tatuate fino ai polsi, le mani pulite, le vene gonfie, le dita affusolate, gli anelli argentati, la barba disordinata. Gli occhi grandi, castani e buoni.
Non l’ha nemmeno guardato il cane, anche se pareva volesse sbranarlo prima che fosse la prossima fermata. Lui, con lo zainetto nero sul sedile accanto, aveva tutta l’aria amara di chi aspetta una carezza e nel frattempo prende a pugni il mondo.
Ci siamo fissati. Zitti e seri. Io a dire “Ma che gli hai fatto al cane?” e lui a rispondermi “Cazzo guardi?”.
Così, pensando che il concetto non fosse abbastanza chiaro, si è spinto oltre e mi ha alzato graziosamente il dito medio. Ho aggrottato la fronte e subito distolto lo sguardo: “Sarà un mezzo matto” ho pensato. Ho tenuto gli occhi fermi sul finestrino fino al capolinea, quando il tram ha accostato alla fermata e ha aperto le porte.
Ho girato la testa ed era ancora li a guardarmi, con l’aria stanca, buona. Un po’ arrabbiata e fintamente aggressiva. Sarà per questo che quando il cane gli ha abbaiato contro non ha battuto ciglio. Can che abbaia non morde (si dice).
Questa è la mia fermata, ma fra 10 secondi le porte si chiudono ancora, il tram riparte e ci vorranno almeno un paio d’ore prima che rifaccia tutto il giro della città fino a qui. Prendere o lasciare Margot: o resti qui a tirare giù il pettine fino alla fine della corsa o ti porti a casa questo nodo.
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Piazza Bausan
“Mi chiamo Margot” gli faccio.
“Fujiko Mine”.
“Si come lei. La stronza truffatrice di Lupin”. E si è girato a guardarmi negli occhi, sorpreso per quell’inaspettata prontezza di spirito.
“Matteo”.
“Fai gestacci a tutti quelli che ti guardano Matteo?”
“Non mi piace essere fissato. La gente che non si fa gli affari suoi. E chi crede di sapere tutto della vita. Tu Margot? Avvicini sempre estranei sul tram in tarda serata?”.
“No mai. È la prima volta. Di solito non muovo passo se non sono gli altri a venirmi incontro. Ma mi piace parlare e non faccio fatica a socializzare.”
“Quindi serve mandarti a fanculo per farti muovere.”
“Dai, ti sei dispiaciuto subito dopo averlo fatto”.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Eri ancora li a guardarmi”
“Perché sei carina.”
“Davvero mi trovi carina?”
“Ti sembro uno che dice stronzate per compiacere una sconosciuta?”
“No.”
“Bene.”
“Allora grazie Matteo.”
“Prego Margot. Non ti ho fatto un piacere. Ma prego.” Con un piccolo sorriso a bocca stretta.
Via Farini
Matteo ama i Fantasy (ma non tutti), deride l’ignoranza, il qualunquismo, odia il suo lavoro e ignora tutto il resto.
“Cosa fai nella vita?”
“Scrivo i manuali d’istruzione”
“Manuali d’istruzione?! Tipo?”
“Tipo che mi mandano le robe a casa, le testo, conto il kit di montaggio. A. Prendi il trapano, B. puntalo alla tempia, C. aziona e vai giù diretto.”
“Se non ci metti un po’ di macabro tu nei racconti non sei felice eh?”
Ha sorriso di nuovo a bocca stretta.
“Mi fa schifo, ma la paga è buona, le cose che devo spiegare le spiego scrivendo, e poi concentrarmi su come funziona un oggetto non mi fa pensare al resto. Mi tiene occupata la testa tutto il giorno.”
“È un mestiere bizzarro. Avrai imparato un sacco di cose. Cos’hai imparato?”
Siamo rimasti in silenzio per un po’. Si sono aperte le porte su Via Farini e sono saliti due marocchini con un sedicenne sbronzo. Si sono seduti dov’ero io prima, in fondo al tram. L’autista ha sbirciato la situazione dallo specchietto e ha urlato “Se deve vomitare non sul tram!!”. Non gli ha risposto nessuno.
“Ho imparato a guardare le cose per capirne il funzionamento. Non me le godo più per certi versi, perché ancor prima di conoscerle, sono già concentrato a capire il meccanismo che muoverà gli eventi. So già come andrà a finire. Smetto di stare ad ascoltare e mi rimetto a leggere annoiato. Prendi quel ragazzo: A. l’autista gli dice di non vomitare sul tram; B. lui è sbronzo e non ha nessuna intenzione di starlo ad ascoltare; C. alla prossima curva vomiterà sul pavimento e l’autista bestemmierà.”
“Prendi me.”
“Prendo te cosa?”
“Come funziono io? Perché mi sono seduta qui a parlarti? Come andrà a finire? Lo sai già?”
“Me lo sto chiedendo da Bausan. Fammi riflettere ancora due o tre fermate e ti saprò dire.”
“Io non ce l’ho il manuale d’istruzioni. Mi spiace Matteo. La vita non ce l’ha. Alcune volte vorrei avercelo, ma la verità è che quando potrei consultarlo, preferisco lasciarmi stupire su come andrà a finire. Senza sentirmelo pronosticare.”
“Il giorno che incontrerò un meccanismo di cui non capisco il funzionamento, impazzirò e diventerò un serial killer.”
“Tipo innamorarsi.”
“Tipo.”
“Quindi se stanotte non ti bastassero tutte le fermate per capirmi, che farai?”
“In quel caso ti ucciderò”.
Come fosse una scena di un film studiata a tavolino, il silenzio romantico di quella mezza minaccia lo ruppe il sedicenne. Vomitando.
Lanza
“Io invece volevo fare l’attrice da bambina. Amo il teatro ma ci vado poco. Ogni volta che il tram passa di qua penso che vorrei abbonarmi alla stagione teatrale. Ma poi non lo faccio mai.”
“Perché non lo fai mai?”
“Perché ci andrei da sola, e forse più del teatro amo solo un’altra cosa. Dividere la pizza a metà con qualcuno.”
“Sono senza cena. La dividerei con te stanotte. Ma questa è l’ultima corsa: scendere vuol dire restare a piedi”.
“Non importa. È comunque un pensiero molto gentile il tuo”.
Nel frattempo aveva tolto lo zainetto dal sedile accanto per tenermi più vicina. Aveva tirato in dentro le gambe ed era seduto composto. Il telefono in tasca e le braccia incrociate su un libro chiuso.
“Volevi fare l’attrice. E invece?”
“Invece stipulo assicurazioni”.
“Su cosa?”
“In caso vita. In caso morte. Qualunque cosa accada insomma. La gente cerca strade alternative a tutto quello che non può prevedere. Vuole controllare ogni cosa. Non accetta nessun rischio.”
Silenzio.
“Mettiamola così: io mi occupo del futuro di tutti quelli a cui tu non sei grado di dare delle buone istruzioni.”
Mi ha guardato. Gli ho sorriso. Ha preso dalla tasca la busta del tabacco e ha iniziato a fabbricare una sigaretta.
“Non credo che qui si possa fumare” gli faccio.
“Non credo che qui si possa vomitare. Eppure.” mi fa.
Ho guardato fuori dal finestrino sconsolata. È mezzanotte e dieci, sono in Duomo, sul tram, in direzione completamente opposta a quella di casa mia, con uno sconosciuto da cui con grande probabilità non rimedierò nient’altro se non l’ennesima conferma di quanto le persone siano inconsistenti e inconsapevoli di quello che fanno. Di dove stanno andando. Non che io lo sappia bene, ma almeno ci provo.
“Se scendo qui” ho pensato “posso prendere l’ultima corsa della gialla e tornare indietro”. Potrei anche arrivare troppo tardi e correre il rischio di tornarmene a piedi, e se fosse così sarei già a quota due rischi pagati stasera. Il primo: quello di lanciarmi in questo rapporto noir solo per dimostrare a chi mi dice che non rischio mai, che invece so rischiare più degli altri. “Chissà perché l’ho fatta sta cazzata stasera” mi sono chiesta.
“Sono sicuro che se vendessi assicurazioni sul rischio di soffrire, faresti più soldi che sulle polizze in caso morte”. Ho girato il collo di 180 gradi, ed era li, che fumava sereno con la faccia dritta verso il vuoto.
“La gente ha più paura del dolore che di morire.”
“Queste istruzioni d’uso le hai imparate su di te o su qualcun altro?”
“Le ho imparate sugli altri. Ma le ho capite su di me”.
Le porte si sono aperte su via Torino. Ma invece di scendere e rincorrere l’ultima corsa della gialla, gli ho chiesto di farmi fare un tiro.
Via Torino
“Quindi tutte le cose che capisci vivendo, te le scrivi addosso.”
“Si”. La frenata del tram e un profondo tiro alla sigaretta. “Come hai fatto a capirlo?”
“Ti ascolto ormai dai un’ora e mezza.”
“Credo sia la conversazione più lunga avuta con una donna negli ultimi tre anni”.
Gli ho preso la sigaretta dalle dita.
“Dio: avrai incontrato donne piuttosto taciturne negli ultimi tre anni”.
“Ne ho incontrate diverse e non tutte taciturne. Ma sono sempre io quello che batte tutti. Così ci vado subito a letto per evitare il problema di doverci parlare troppo a lungo.”
“Lo dici come se parlare di te fosse la cosa peggiore che possa capitarti”.
Si sono aperte le porte ed è salita una donna africana con svariate buste in mano e una bimba di massimo cinque anni. Si è seduta subito dietro il macchinista tenendo ben salda la manina della figlia. Lei, con gli occhi cioccolato e il vestitino arcobaleno, ha preso a fissarci intensamente.
“Non la peggiore, ma...”
“Ma?”
Ha tolto il cappellino e si è passato la mano tra i ricci spettinati, come se potesse aiutarlo a ordinare le idee prima di parlare.
“Se una donna è carina e stupida, non ho pudori. Ci sta ogni tanto portarsi una a letto. Ma se incontro una donna intelligente, se incontro una che mi piace, beh … scappo”.
L’ha detto un po’ sottovoce, ma guardandomi ben dritto negli occhi proprio alla fine. E visti da vicino quegli occhi grandi e buoni lo erano ancora di più.
“Mamma dice che qui non si fuma”
“Ha ragione la mamma. La spegniamo subito. Tu come ti chiami?”
“Mi chiamo Amina?”
“Ciao Amina. Io mi chiamo Margot!”
“Lui?” con il micro dito puntato sulla testa riccioluta in bilico tra le mani.
“Matteo.” Fa lui, con lo stesso fil di voce.
“E vi volete bene tu e Matteo?”
“Non ci vogliamo del male Amina. Di questi tempi è già molto.”.
Porta Genova
Quasi al capolinea di questo viaggio notturno senza sicurezze, abbiamo lasciato le nostre sedute e ci siamo messi in piedi. Uno di fronte all’altro, con le mani agganciate allo stesso palo, pochi centimetri l’una dall’altra.
“Sei a Milano da cinque anni ma su questo tram non ti ho mai incontrata”.
“Non hai cercato bene. Io lo prendo ogni giorno da quando mi sono trasferita”.
“Non ho sbatti al mattino di guardare le persone che salgono e scendono.”
“Pensare che quella è la parte che invece io amo di più.”
“Guardare la gente?”
“Cercare le sfumature.”
Mi ha sorriso con la bocca stretta, ma questa volta arricciando il naso.
“Non è stancante?” mi fa, tornando subito serio.
“Che cosa?” faccio io.
“Cercare. Scegliere. Approfondire.”
“Lo è. Ma è molto importante che io lo faccia, per non lasciare mai che le cose che mi rendono triste e delusa possano convincermi che il mondo è fatto tutto così.”
“T’invidio l’energia. E anche un po’ la fiducia”.
“T’invidio gli anelli. E qualche tatuaggio.”
Gli ultimi cento metri prima dell’ultima fermata abbiamo smesso di parlare. Con noi sul tram, ancora i due marocchini mezzi marci che mantenevano a fatica il sedicenne sbronzo che dondolava sulla sedia ad ogni minimo sbalzo della carrozza, rischiando di rotolare per terra nel suo stesso vomito. Amina con gli occhi cioccolato e sua madre, strette ed educate in un angolo, mimetizzate nel cielo nero dell’una di notte, riflesso oltre la finestra della carrozza. Io e Matteo, due pendoli con in mezzo un palo. Ognuno in balia dei propri pensieri. Delle proprie misteriose sensazioni.
Deve aver attraversato la strada un gatto, perché il macchinista ha inchiodato all’improvviso. Io ho quasi perso l’equilibrio e Matteo per non cadere ha agganciato al palo entrambe le mani, finendo senza volerlo sulle mie. Da li al capolinea dieci secondi. Potevamo ricomporci e sciogliere il contatto. Ma senza muoverci di un millimetro siamo rimasti fermi cosi. Mani nelle mani, così.
7. 6. 5. 4. 3. 2. 1.
Piazzale Negrelli
Il rumore delle vecchie porte cigolanti del 2 ha rotto l’ultimo silenzio della serata.
“Questa è la mia” fa lui.
“Già.” faccio io.
“Mi ha fatto piacere parlare con te stasera. Sono quasi felice di averti mandato a fanculo”.
“Non andarne tanto fiero. Non si tratta così una signorina”.
Abbiamo riso finalmente. Con denti in vista e nasi arricciati.
“Mi lasci il numero? Usciamo a berci qualcosa. Sulla terra ferma intendo”.
“Sei forse pronto a correre il rischio di una conversazione più lunga della corsa del tram?”
“Non lo so. Ma avevi ragione tu: sono arrivato a casa e non ho ancora capito come funzioni”.
“Io però non vendo assicurazioni contro il rischio di soffrire”. L’ho detto scherzando, ma credo che per lui sia stato come un colpo di pistola.
“Sto per chiudere!” urla il macchinista.
“Allora buona notte”. Le distanze si sono accorciate in una frazione di secondo. Ho sentito la barba sulla guancia e uno schiocco fulmineo vicino all’orecchio. Come fosse il remake del tempo delle mele. Ma senza cuffie, senza mela, di notte, a qualche metro di distanza da una pozza di vomito. È schizzato via fuori dal tram, appena in tempo per la chiusura delle porte. È scivolato fuori quasi di lato, cogliendo davvero l’ultimo attimo utile per filare via. Per scappare. Proprio come mi aveva detto.
Io mi sono riappollaiata su un sedile e ho guardato al contrario fuori dalla finestra ogni tappa di quel viaggio misterioso, riavvolgendo il nastro delle cose che ci eravamo detti. Dentro e fuori le metafore.
Ci piacevamo. Ne sono certa.
Arrivata in piazza Bausan, sola, in piena notte, mi sono chiesta perché non avesse aspettato che gli dessi il numero. Che problema c’era nell’aspettare? Dopotutto dietro l’attesa si nasconde il godimento vero delle cose. Sarà forse stato per mancanza di coraggio? Mi domando allora, dopo anni di evoluzione e adattamento al mondo, come ci insegna il buon Darwin, cosa ne sarà di noi esseri umani, che ormai senza due o tre bicchieri di vino non troviamo il coraggio di dire e fare più nulla. Nemmeno raccontare chi siamo davvero. Continueremo a collezionare malinconia e brevi viaggi come quelli di stasera. O banalmente lasceremo che la paura di sbucciarci ancora le ginocchia blocchi l’evoluzione di ogni buon percorso, per quanto affascinante e promettente. Continueremo a girarci intorno, malgrado schiere di indizi favorevoli (“Eppure mi ha chiesto il numero.” “Eppure mi guardava con quegli occhi…” mi sono ripetuta fino alla porta di casa). Continueremo a girare su quest’altalena senza fine, proprio come fa il 2 ogni giorno. Da Piazza Bausan fino a Piazzale Negrelli.