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3. Che ora abbiamo fatto?

G. e Luca erano come la 90 e la 91 sulla circolare di Milano: giravano in tondo in direzioni esattamente opposte, un po’ alla ricerca degli odori l’uno dell’altro, un po’ scappando, un po’ rincorrendosi. Un po’ perché erano davvero due anime specula…

G. e Luca erano come la 90 e la 91 sulla circolare di Milano: giravano in tondo in direzioni esattamente opposte, un po’ alla ricerca degli odori l’uno dell’altro, un po’ scappando, un po’ rincorrendosi. Un po’ perché erano davvero due anime speculari: come la 90 e la 91, le stesse fermate, ma in senso contrario.

[Ph. Web]

Da quando Batman se ne va in giro per le linee telefoniche della città a risolvere problemi informativi? E Robin Hood? Non era quello che toglieva ai ricchi per dare ai poveri? In quel caso G. si sarebbe aspettata direttamente la notifica dei biglietti aerei pagati da lui. Ma questo apparente eroe metropolitano non sembrava avere dei super poteri interessanti. Di certo era stato gentile e se non fosse stata nel periodo più di merda della sua vita, forse G. l’avrebbe richiamato subito. L’avrebbe richiamato anche solo per risentirgli dire “Pronto”.

Subito dopo l’università aveva lavorato come speaker radiofonica. Non ricordo di averla mai vista così felice come in quegli anni. Amava follemente il potere virtuale del suono. Quello emotivo. Perfino quello erotico. Riusciva a sviluppare teorie sulle persone e sugli uomini ascoltandone la voce, analizzandone il fraseggio. All’inizio ho pensato che fossero solo stronzate, ma ci ha preso più di una volta e con il tempo ho finito per crederle senza riserve.

Conduceva un programma serale “Che ora abbiamo fatto?” che andava in onda il lunedì, mercoledì e venerdì, dalle 10 all’1 . Mi diceva che non avrebbe mai cambiato fascia, nemmeno per la carriera più brillante. Nemmeno per il pomeridiano centrale (l’equivalente del Bingo). Non l’avrebbe mai fatto perché per G. le persone migliori sono quelle che prima di andare a dormire pensano, hanno qualcosa da dire e (soprattutto) ascoltano buona musica. Quelle tre ore serali erano diventate delle regolari confessioni con le persone; dei momenti d’introspezione dove poteva incontrarsi con il mondo come piaceva a lei. Solo ascoltandolo.

“Non hai idea di quanta gente è sveglia a farsi domande a mezzanotte. Più di quella che credi. Sai: non immagino un uomo migliore di mio nonno. Qualcuno di più stimabile. Ma se mai dovessi innamorarmi so che inizierà così. Inizierà con un bel suono di voce.”

Se non fosse stato un periodo di merda, si, l’avrebbe richiamato. Soprattutto per quel bel suono di voce, caldo e avvolgente, come piace a lei. Ma si sa: nella storia della vita della gente la regia la fa il tempismo. Lo decide lui se è il momento di iniziare a girare. La volontà dei protagonisti conta poco e niente.

E a proposito di tempismi, G. e Luca erano proprio come la 90 e la 91 sulla circolare di Milano: giravano in tondo in direzioni esattamente opposte, un po’ alla ricerca degli odori l’uno dell’altro, un po’ scappando, un po’ rincorrendosi. Un po’ perché erano davvero due anime speculari: come la 90 e la 91, le stesse fermate, ma in senso contrario. Come due molle, si allontanavano sempre di più, e nel momento di maggiore distanza iniziavano a sentire astinenza l’uno dell’altro a e riavvicinarsi nuovamente; erano destinati a rincontrarsi in un qualche punto di questa giostra circolare; si sarebbero visti arrivare da lontano, ognuno con i fari puntati sull’altro. Avrebbero accostato allo stesso marciapiede, e in quei consueti 30 secondi in cui lasci andare della gente e ne porti su della nuova, si sarebbero osservati. Finalmente, ad una distanza abbastanza ravvicinata da capire di volersi troppo. Di volersi davvero.

Ricordo bene quel pomeriggio di primavera. Era un po’ che non rientravo a Milano e l’ultima volta che io e G. ci eravamo parlate, l’avevo sentita stanca. Per la prima volta dall’inizio di questa lotta a quattro mani. Per cui appena atterrata le avevo scritto dicendole che potevamo sentirci, ma che sarei rimasta a Torino dai miei.

“Pronto?”

“Claudia.”

“Ehi ciao! Ma dove sei? Ti sento malissimo.”

“Sono in metro, sto tornando a casa a fare la valigia”.

“La valigia?”. “Si vaffanculo. Mi sono licenziata. Posso venire da te questo week end?”.

“Certo che puoi? Ti prendo domani dalla stazione?”

“No stasera. Prendo due stracci da casa e vengo in macchina”.

L’aspettai sveglia raggomitolata sulla mia poltrona. L’abbraccio caldo e consolatorio alla fine delle grandi battaglie quotidiane. Due birre sul tavolo. Le tre di notte. Io e G. a ridere e parlare a ruota libera. Ho sempre pensato che quello fosse uno spicchio di vera felicità.

“Diego quindi è a Roma ora?”.

“Si alla fine ce l’ho fatta. Ha preso un treno il giorno dopo. Più scomodo, ma ora almeno è li”.

“E quel tipo? L’hai richiamato?”

“Ma chi?”

“Il tipo tenebroso del call center!”

“Ma figuriamoci. Manca giusto che mi metta a rimorchiare sconosciuti al telefono.”

Un lungo sorso di birra alla canna della bottiglia.

“Cazzo che voce però”.

“L’hai detto tu. Non io.”

“Serve rimettersi a cercare lavoro mia cara Claudia. Ma non ci voglio pensare per tutto il week end. Vorrei fare solo cose stupide e poco sensate, almeno per un paio di giorni.”

“E allora chiamalo??”

“Ma chi????”

“Ma come chi???? Il tipo tenebroso del call center”

“Claudia ci sei? L’ho mandato a fanculo senza farlo parlare”

“Ok ma ti ha riscritto no? Magari è uno che empatizza al volo. Che ne sai?”

“Empatizza? Chi t’insegna queste parole? Magari è uno a cui piace essere trattato male. Boh non mi interessa. Mi serve un lavoro Claudia. Non un amante telefonico. Un lavoro”.

“Rilassati. Domani faccio due telefonate e qualcosa salterà fuori”.

Qualcosa salterà fuori. Ce lo dicevamo sempre G. e io. Credo ci piacesse particolarmente pensare proprio al balzo con cui a volte dal nulla certe cose ci arrivano in braccio. Volere o no. Non le vedi arrivare: le fiondano dal basso, disegnano un grosso arco in cielo e mentre ti stai stiracchiando, te le ritrovi in mano. Così erano saltati fuori i nostri primi amori, i tradimenti, le storie di una notte con i PC (not personal comuputer but poco raccomandabili). Così era saltata fuori la radio, i viaggi più belli mai fatti, i film di una vita beccati per caso su Netflix.

Un altro grande silenzio in penombra nel salotto di casa. Una sirena in lontananza e un altro sorso alla canna della bottiglia ghiacciata.

“Cazzo che voce però.”

“Risalterà fuori anche lei”.

Trascorremmo il week end in giro per Torino a fare grandi acquisti per squattrinate: un fermaglio, la pinzetta per le sopracciglia, un burro di cacao alla fragola e l’ennesima confezione di mollette in plastica che avrebbero garantito il bucato per un paio di mesi. Non di più. In coda in cassa, assorta dal nastro nero che muove i prodotti della gente fino alle mani della cassiera, pensavo a quanto sono diverse le cose che “ci servono” per stare bene. I carrelli delle persone al supermercato sono un’attrazione da sempre, e con G. ci divertiamo a inventare storie a breve termine sul cliente prima di noi.

“Mmmm: intravedo una carbonara”.

“Ah si?”

“Be, tu con uova e pancetta nel carrello che ci fai?”

“Con uova e pancetta non lo so, con la scatola da 20 della Durex…”.

“Sarà un paranoico ipocondriaco. Di quelli che dopo l’orgasmo corre subito in bagno a farsi la doccia. Guarda quanti detersivi ha. Ma zio cane, cosa dovrà mai pulire con tutta quella roba”.

“Magari sta traslocando. Dopo un periodo di fatica e ritmi altissimi, stasera vuole pulire casa nuova e invitare la tipa a cena sperando nel gran finale”.

“Claudia, ci vedi forse due candele in quel carrello? No. Nessuna cena romantica. Avrà l’asta del fantacalcio”.

“Che cazzo di asta è se ci partecipano in 3? Ha preso la confezione da 4 delle uova. Anche biologiche tra l’altro”.

E improvvisamente, poco prima che toccasse a noi.

“Ciao! Si, devo fare la carbonara per un mio collega che domani ha il suo ultimo giorno di lavoro. E no, non sono ipocondriaco. Sto facendo la spesa per pulire il locale dove gli organizzeremo la festa di addio settimana prossima. E…”

“Oddio ma tu…”

“..si. Ci conosciamo!”.

Gabriele era una vecchia conoscenza universitaria mia e di G., compagni di serate poco lucide e molto allegre nei tempi che furono del “facciamo un gruppo di studio?”. Riflettevo qualche giorno fa sul fatto che da quando ho compiuto trent’anni tutte le mie conoscenze si sono immediatamente suddivise in due grandi categorie:

1.    “Ehi che facciamo domani?”.

2.    “Oddio ma quanti anni sono che non ci vediamo?”.

Come se non ci fossero vie di mezzo. Tipo sentirsi una volta al mese, o avere un rituale che non implichi il non riconoscersi ogni volta che ci si incontra. La verità è che fino ai venticinque sembrava che il tempo fosse sostenibile e le persone che hanno fatto parte del panorama fino a quel momento, avessero tutto lo spazio necessario per restare in scena.

Da qualche anno non riesco più a tenere tutti in primo piano, il tempo inizia a farmi costruire frasi del tipo “dieci anni fa è successo che…”. Dieci anni fa, e me lo ricordo bene. A venticinque anni non parli di dieci anni fa, ma di quando avevi quindici anni. 

“Oddio ma quanti anni sono che non ci vediamo?”

“Non me lo ricordo ma direi che non sei cambiata molto. Continui a farti i cazzi degli altri come se nessuno potesse ascoltarti.”

“É un gioco stupido a cui non sappiamo rinunciare. Tipo te con il Lysoform.”

“Ti ho detto che è per la festa”.

“Si si: dicono tutti così. I condom invece sono per gli invitati?”

“Paga stronza. Andiamo a berci una cosa”.

Lucia Pugliese1 Comment