5. Diego
Ho conosciuto poche altre persone testarde quanto G. Che poi a pensarci bene la testardaggine ha qualcosa a che vedere con la competizione, con la voglia di far vedere che è come dici tu. E più gli altri ti dicono il contrario più ti viene voglia di dimostralo il doppio che “no”. È proprio come dici tu.
Ecco G. era una di quelle donne: non mi disse subito di aver ricevuto quel vocale. Temporeggiò qualche giorno, forse anche per capire che cosa ne pensasse lei stessa di tanta insistenza. O forse per placare l’incredibile eccitazione che sentirsi preda di qualcuno le aveva scatenato in corpo.
“Ma ti rendi conto di cosa ha fatto?”
“Be dai ti lamenti sempre che gli uomini che frequenti non sono abbastanza intraprendenti. A questo non gli si può certo recriminare l’iniziativa.”
“Claudia ci sono gli estremi per una denuncia!”
“Oddio che pesantezza. Ti ha fatto piacere o no?”
Ebbene non rispose, e con un mezzo ghigno di compiacimento cambiò discorso.
Trascorsero dei lunghi e freddi mesi. Arrivò l’inverno, ci investì il Natale e con l’anno nuovo assieme agli alberi del lungo viale accanto alla stazione, sfiorirono anche le speranze di salvare Diego. Di offrirgli un altro pò di tempo per fare cose semplici. Amare la sua famiglia, curare il suo uliveto, imbottigliare del buon vino primitivo, commentare le maratone politiche di Mentana. Ridere di Crozza. Mangiare piccante. Tifare la Juventus senza vantarsi. Ridere, ridere e ancora ridere.
Era stato il nonno ad insegnare a G. che non esisteva traguardo irraggiungibile, un obiettivo che per quanto lontano, sfuggisse alla logica incrollabile del “chi semina raccoglie”. Chi si impegna, ottiene. Sempre. È così, non esistono eccezioni. E lei su quel principio aveva fondato ogni cosa dacché aveva iniziato a stare al mondo. Direi se stessa per certi versi. Ogni passo mosso nella vita, trovava il suo baricentro nella certezza che certamente l’impegno e l’amore l’avrebbero condotta dove solo lei avrebbe voluto.
Con quella stessa logorante determinazione aveva trascorso gli ultimi tre anni, prima a cercare affannosamente medici, poi cure alternative, errori nelle diagnosi, poi parole di conforto, poi ancora spiegazioni razionali. Aveva usato davvero tutto per mantenersi in piedi. Tutto. All-in, se il campo di combattimento fosse stato il tavolo verde da gioco e le sue energie tutte le fiches a disposizione. L’eccitazione e il pudore per quei 26 secondi di voce, sfuggiti fuori dal telefono, non solo sembravano un lontano ricordo, ma parevano anche fragili poteri contro il vuoto di quei mesi. Contro l’assenza. La sconfitta. L’amarezza e la rabbia di non aver raccolto un cazzo di quel fiducioso seminato.
“Papà se n’è andato”. Mi disse al telefono. E solo ora mi accorgo di come abbia trascorso tutto il tempo successivo a quell’istante a capire dove. Dove se ne fosse andato Diego. A chiedersi quando si sarebbero rivisti, e chi avesse inventato la stronzata che il tempo guarisce tutto. G. si sentiva sulla riva di un’isola a fissare una barca dalla quale non voleva dividersi, allontanarsi ogni giorno. E a furia di vederla rimpicciolirsi all’orizzonte, non si sentiva meglio, come invece le avevano promesso, ma solo più nostalgica. Nostalgica, come mai aveva pensato di poter diventare, al punto da credere che davvero senza la sua barchetta ormeggiata felicemente in porto, il suo mondo fosse un mondo tutto nuovo. Mai visto e mai conosciuto. E con lui anche se stessa: non ritrovava più quella che conosceva e litigava quotidianamente con la persona che era diventata. Silenziosa e chiusa. Seduta su un’altalena emotiva che senza una regola definita la lanciava per aria, oscillando tra la voglia di ripartire a fare cose straordinarie nella sua vita, e la nostalgia drammatica del non poterle più raccontare a Diego. “Mi sono resa conto di tenerle in lista nella mente, come se fosse fuori per lavoro e al ritorno dovrò bloccarlo dopo pranzo, prima del riposino pomeridiano, per chiedergli che pensa di ogni cosa. Anche di quelle che sono certa non condividerà.” mi raccontava a voce bassa, guardando un punto fisso fuori dalla stanza. “Ho proprio voglia di rivedergliela dal vivo quella ruga di attenzione che gli divideva a metà la fronte quando mi ascoltava. Prima di rimproverarmi per il mio temperamento, il più delle volte per mettersi a ridere, battuto dalla simpatia e dall’amore”.
Per i primi mesi il dondolio di quell’altalena era stata un culla, dolce e lenta, che per un pò l’aveva fatta assopire. L’adrenalina era scesa e il paesaggio si era fatto meno confuso. La terra ferma e il ciclo della vita regolare: sorge e tramonta. Sorge e tramonta. Sorge e tramonta. Ma poi l’altalena aveva iniziato a prendere velocità, all’aumentare dei giorni, dei soli sorti e tramontati, all’allungarsi della lista delle cose da dirsi. “Mi viene da vomitare” mi disse “per quanto va veloce questa altalena: ho il mal di mare. E quando provo a mettere un piede giù per rallentare, mi faccio solo male”.
Le serviva qualcuno che l’afferrasse mentre era in volo; qualcuno che la riportasse al centro della terra, e malgrado le volessi bene come fosse il mio braccio destro, sapevo che il mio conforto non era sufficiente a fermare questa folle velocità.
Dopo il funerale sono successe un mucchio di cose davvero strane. Tra queste alcuni amici sono letteralmente scomparsi. Li chiamavo “Gli insospettabili” quando capitava di riparlarne: persone che in altri tempi mi scrivevano ogni giorno per sapere come stesse G. Se fosse a Milano o a Torino da me. Se mangiava. Dormiva. Com’era l’ultima TAC di Diego. E poi all’improvviso puff: niente più. C’è chi ha dichiarato con candore che “non era in grado di empatizzare con il suo dolore”. A distanza di tempo posso dire con certezza che è stato più onesto intellettualmente di chi non le ha più chiesto nemmeno “Come stai”.
E poi c’è stata gente che inaspettatamente si è rifatta viva e l’ha avvolta di attenzioni e tenerezza. Gli amici del gruppo di studio universitario, tra cui Gabriele, alcune ex fiamme di G. e Riccardo. Per noi solo Ricky.
Ricky era uno “strano”: me lo aveva raccontato così G. il pomeriggio dopo averlo incontrato nella caffetteria sotto casa, seduta al bancone con la tazzina del caffè vuota e bollente stretta fra le mani.
“In che senso strano?”
“Strano, non so dirti. A tratti triste, timido, ben educato, ma diretto. Mi ha chiesto se avessi da accendere, gli ho risposto di no. E poi non so come ci siamo ritrovati a parlare di musica.”.
Ricky e G. avevano iniziato a frequentarsi diversi anni prima la morte di Diego, senza un fine preciso: credo si piacessero ma non abbastanza da mettersi le mani addosso. Letteralmente. Mi raccontava G. che per almeno un anno e mezzo non si erano nemmeno mai sfiorati.
“In che senso?” domandai dubbiosa.
“Nel senso che non ci siamo nemmeno stretti una mano”
“Ma scusa quando vi salutate ad inizio o fine serata? Non ve lo date un bacio sulla guancia?”
“No. Ci diciamo ciao e basta”.
“Ma perché scusa? Di che hai paura?”.
“Non ho paura di niente. Mi viene naturale così e credo sia lo stesso anche per lui. Parliamo senza guardare che ora sia e l’idea che non ci si veda necessariamente perché siamo uomo e donna, mi fa sentire libera di dirgli quello che mi pare.”
“Forse” mi aggiunse alla fine di un lunga pausa “ho paura che toccandoci si rompa questa dimensione bellissima che c’è quando ci vediamo, anche dopo molto tempo che non ci sentiamo, e questo rapporto diventi uguale e identico a tutti gli altri.”
Giuro che non la capisco sempre subito. A volte mi ci vuole un pò per arrivare a comprendere quello che intende dire. Con Ricky l’ho capito dopo per esempio.
Alla fine del primo lockdown si rividero dopo mesi e mesi angoscianti chiusi in casa, un pò come tutti, quasi fosse il ritorno da una strana guerra. Quella volta li, senza pensarci troppo, si andarono incontro a tutta velocità, sfondarono l’invalicabile prossemica che li aveva sempre tenuti a distanza di sicurezza, e si abbracciarono. Forte e con ogni aderenza del corpo. Rimasero così sorridenti e felici di vedersi per qualche secondo e nessuno dei due pensò che fosse una cosa sbagliata o strana, quanto piuttosto un ritmo giusto per dire di voler bene ad una persona.
“Non ne posso più dei date mordi e fuggi. Dei primi appuntamenti che hanno qualche chance di arrivare al terzo. Del terzo appuntamento dove se non succede niente allora non ci si sente più. Non ne posso più del sesso fine a se stesso, dei limoni dati per fiducia, e di questi maledetti tempi di avvicinamento che sono la decima parte di quello che vorrei. Sai che c’è? Lo capisco ora Gambardella. Nemmeno io ho più voglia di spendere tempo per fare cose che non ho voglia di fare. Vedi papà: aveva una lista infinita di cose che voleva fare ancora, ed è rimasto bello fregato. Se è vero che non c’è tutto questo tempo, allora conviene pensarci a fondo a come usarle le giornate. Pensavo che con Ricky da quando ci siamo rivisiti ci tocchiamo di continuo e non ricordo proprio l’ultima volta che abbracciare una persona sia stato cosi…naturale. Così giusto. Questa novità mi ha fatto desiderare che sia così la prossima volta che farò l’amore con un uomo. Certo, mi piacerebbe che accadesse presto. Sono fatta di sangue anche io. Ma vorrei con tutte le mie forze che, quando sarà, significhi qualcosa.”
Anche se per un periodo l’abbiamo pensato in tanti, non credo cercasse qualcuno che potesse sostituire Diego. Lui era stato un uomo unico al mondo, di quei pezzi buoni che Dio sgancia fuori ogni 200 anni e chissà se tiene lo stampo da parte o lo brucia assieme all’anello di Padron Frodo. Eravamo tutti innamorati di lui in qualche modo, e gelosi di quell’assertività naturale e magica che lo rendeva Padre. Strada. Luce.
Ho pensato fosse importante parlarvi di lui, perché sebbene il tempo lo abbia allontanato troppo presto dalla riva in cui si svolge questa storia, la sua morte ha segnato una linea di confine tra due tempi. Quello dell’amore goduto e di quello conquistato.